Convegno conferenza europea sul Mobbing Venezia 10 ottobre 2002
MOBBING:
UN ATTACCO ALLA DIGNITÀ
DI CHI LAVORA
di Maurizio EUFEMI
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Convegno “Conferenza Europea sul mobbing”
Venezia, 10 ottobre 2002
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Purtroppo, solo in anni recenti abbiamo prestato attenzione alla necessità d’individuare puntualmente e combattere le violenze psicologiche sui luoghi di lavoro: appunto, il mobbing.
Questo termine inglese (to mob, che letteralmente significa: “l’atto d’aggredire con grande violenza una folla”) è stato coniato per tale fattispecie dallo svedese prof. HeinzLEYMANN col significato generale di “ledere”, “aggredire”; tale termine costituisce una nuova ed inquietante sintesi, adatta a definire comportamenti strategicamente finalizzati ad estromettere – con qualunque mezzo – uno o più lavoratori dal territorio ove essi svolgono il loro ruolo.
Il mobbing è dunque un’attività persecutoria palese o strisciante, posta in essere nell’ambiente lavorativo da chi detiene poteri decisionali capaci d’incidere nell’altrui sfera giuridica.
Tale fenomeno si sta evolvendo progressivamente: questa crescita inesorabile riguarda non solamente il lavoro privatistico, ma anche le pubbliche amministrazioni, modificate nella loro configurazione dalla “privatizzazione” del rapporto lavorativo (una “privatizzazione” che però non riguarda il rapporto d’impiego, essendo pubblico il datore di lavoro).
Il fenomeno sta divenendo quindi una vera e propria patologia sociale, originata dall’innesco artificioso d’un processo distruttivo per la persona o le persone che ne sono vittime.
Varie statistiche sono state diligentemente elaborate in materia di mobbing; per quelle relative all’Unione europea basta riferirsi allo studio compiuto dall’Agenzia europea per la sicurezza e la salute sul lavoro (AESSL), recentemente illustrato a Strasburgo da Pat COX, presidente del Parlamento europeo. Tutte queste statistiche (quelle europee e quelle specificamente italiane) presentano dati allarmanti.
Per l’àmbito generale dell’Europa unita:
– nella sola Unione europea sono circa 40 milioni i lavoratori colpiti dalmobbing;
– per i Paesi dell’Unione, il costo annuo del mobbingammonta a circa 20 miliardi di euro;
– a queste perdite economiche vanno aggiunti i costi, difficilmente quantificabili, causati dalla minor produttività dei lavoratori nelle amministrazioni pubbliche o nelle aziende private.
Nei 40 milioni di vittime europee s’inscrive il milione e mezzo di oppressi italiani, in gran parte (43% del totale) concentrati nel Lazio. I dati si riferiscono ad una ricerca dell’ISPESL (Istituto di prevenzione e sicurezza del lavoro), organo tecnico-scientifico del Servizio sanitario nazionale. Tale ben noto Istituto ha aperto a Roma, nel Laboratorio di psicologia e sociologia del lavoro, un centro d’ascolto sul mobbing; l’anno scorso a questo centro si sono rivolti 2.209 soggetti.
Il lavoro ricognitivo ha fornito per l’anno 2001 i seguenti risultati:
– i lavoratori italiani “mobbizzati” sono – come dicevamo prima – circa 1.500.000;
– in Italia, tenendo conto delle ripercussioni familiari, nel mobbing del lavoratore o della lavoratrice sono coinvolte oltre 4 milioni di persone;
– l’età del “mobbizzato” è oscillante, ma accentuata tra i 51 ed i 60 anni: maschio nel 52% dei casi, quasi sempre coniugato (82%);
– la maggior parte dei “mobbizzati” ha titolo di studio medio-alto. Il 71% ha un diploma, il 17% è laureato; nell’81% dei casi si tratta d’impiegati o quadri o funzionari direttivi (questi ultimi da considerare attualmente vicedirigenti secondo la legge recentemente e giustamente promulgata, da concretare ora con ulteriori atti innanzitutto governativi), nel 19% di dirigenti;
– in un’azienda con mille dipendenti, il costo della violenza psicologica s’aggirerebbe su circa 200.000 euro (più o meno, quattrocento milioni di vecchie lire);
– il “mobbizzato” costa singolarmente al datore di lavoro (pubblico o privato) circa il 180% in più (ossia, quasi tre volte!);
– la produttività e l’efficienza d’un singolo lavoratore “mobbizzato” si riduce del 70% (meno di un terzo delle sue potenzialità!);
– alle amministrazioni pubbliche va la “palma” (si fa per dire) del mobbing. Proprio da dipendenti pubblici è giunto, infatti, al centro d’ascolto il 71% delle telefonate complessive.
Nelle amministrazioni pubbliche la forma più frequente di mobbing è il bossing, che mira ad emarginare il lavoratore. Il fenomeno del mobbing, nella sua complessità, può peraltro determinarsi come orizzontale (tra colleghi) o verticale (dal sopraordinato al dipendente e viceversa), e può riguardare “gruppi” che operano sul “mobbizzato”: in qualche caso si riscontra mobbingistituzionale.
Il fenomeno assume quindi una grande rilevanza anche nei rapporti di lavoro; d’altronde, per ogni individuo adulto la vita lavorativa assume notevole importanza in forza d’intuibili ragioni oggettive e del gran numero d’ore dedicato quotidianamente al lavoro.
Perciò il mobbing dovrebbe esser disciplinato da una legge generale (oggi inesistente), la quale sancisca i princìpi fondamentali d’intervento nonché le forme di tutela del lavoratore e le responsabilità degli autori dei comportamenti illeciti (comportamenti che in sé avrebbero talvolta una rilevanza penale, difficilmente enucleabile in Italia con gli attuali strumenti giuridici).
A tal fine sarebbe opportuno che tutti i disegni di legge, attualmente all’esame del Parlamento e dei Consigli regionali, confluiscano in un testo unitario ed omogeneo nonché fondato su principi certi ed universalmente idonei a comprendere le varie fattispecie di violenza psicologica nei luoghi di lavoro.
Per questi motivi ho deciso di presentare al Senato il disegno di legge n.1290, recante “Norme generali contro la violenza psicologica sui luoghi di lavoro”. Con tale progetto intendo fornire al dibattito parlamentare un contributo anche di “raccordo”, perché si giunga finalmente ad una definizione normativa del mobbing ormai socialmente urgentissima e non più differibile.
Rispetto alle proposte e ai disegni di legge presentati nella precedente legislatura ed all’inizio della presente, tre novità (in linea con legislazioni d’altri Paesi dell’Unione europea) questo nuovo progetto offre:
a) la previsione del mobbing come reato (anzi, come delitto). Tale scelta, che ritengo rispondere ad esigenze di giustizia sostanziale (trasponendo, in linea di massima, sull’evento originato nell’ambiente lavorativo lo schema giuridico della violenza privata), nel vigente contesto ordinamentale risulta l’unico deterrente contro soprusi altrimenti non condannabili (in Italia, infatti, il mobbing non ha una specifica disciplina sanzionatoria);
b) l’attenzione ad una concreta fattispecie comportamentale, effettivamente riscontrabile ma poco nota in Italia: il bossing, ossia il mobbingperpetrato contro dirigenti o funzionari anche nelle amministrazioni pubbliche. Il fenomeno riguarda sovente vessazioni, operate da dipendenti contro autorità gerarchicamente sopraordinate; si concretizza in un misto di pressioni psicologiche,dispetti, richieste assurde, angherie, a volte minacce di deferimento all’autorità giudiziaria. Tali eventi si verificano con speciale frequenza nel lavoro pubblico e soprattutto contro le donne dirigenti o funzionarie direttive o (nel lavoro privato) quadri. Sono proprio le donne ad essere più esposte a tutti gli effetti negativi che derivano dal mobbing. Tali patologiche situazioni non hanno nulla da spartire con l’esercizio di un’ordinaria pressione sindacale, connaturato al ruolo istituzionale delle organizzazioni rappresentative dei lavoratori;
c) la previsione del mobbingesterno, cioè di una pressione proveniente anche da organizzazioni ed associazioni.
Reputo importante fugare, in questa sede, le perplessità di quanti ritengono non persuasiva l’identificazione del mobbing in senso penalistico. Anche se necessariamente s’è dovuto prender le mosse dallo schema normativo della violenza privata, la previsione d’un reato ad hoc non costituisce affatto un’inutile specificazione casistica di fattispecie giuridica, bensì concreta una previsione normativa indispensabile ad evitare che comportamenti lesivi di diritti personali non ricevano punizione adeguata e non subiscano un deterrente idoneo a scongiurare il dilagare d’iniquità sempre più sistematiche e violente, almeno sul piano psicologico.
Occorre infatti considerare specificamente sia l’attentato al diritto alla salute, che il mobbingcostituisce contro il singolo lavoratore, sia – generalmente – la mancanza di garanzie per fondamentali esigenze di fiducia e sicurezza nelle relazioni sociali della cittadinanza e dell’intera collettività: fiducia e sicurezza che sono alla base d’ogni ordinamento democratico nonché a garanzia di libertà e civiltà umana. Normalmente il “mobbizzato” presenta:
– reazioni psicosomatiche (cefalea, tachicardia, gastroenteralgie, dolori osteoarticolari, mialgie, disturbi dell’equilibrio);
– reazioni propriamente psicologiche (ansia, disturbi dell’umore);
– disturbi gravi della personalità (anoressia, bulimia, alcoolismo, etilismo).
Tali situazioni cliniche di depressione possono essere affrontati e guariti solamente attraverso un’adeguata terapia, tanto più durevole nel tempo quanto più il dipendente rimanga legato al suo ambiente lavorativo. Allo stato attuale della ricerca scientifica, la terapia si fonda sulla somministrazione psichiatrica di psicofarmaci e sull’autosostegno psicologico (anche attraverso riunioni di pazienti, coordinate da uno psichiatra o da uno psicologo).
Per tornare agli aspetti giuridici della lotta contro la violenza psicologica nei luoghi di lavoro, ricordo che il progetto vuole altresì render nulli tutti gli atti discriminatori, resi per mobbing contro lavoratori o lavoratrici di qualunque ordine e grado; in questi casi – nell’àmbito civilistico, e non più penalistico – il giudice del lavoro, sentite le parti, dovrebbe emanare un provvedimento che decida sulla nullità degli atti. In tal senso si vogliono render nulli:
– gli atti e le decisioni, che si riferiscano alle variazioni delle qualifiche o delle funzioni nonché delle attribuzioni e delle mansioni o degli incarichi;
– i trasferimenti anche in altri territori o in differenti aree del medesimo sistema lavorativo, riconducibili alla medesima fattispecie:
– gli atti e le decisioni, che si riferiscano a discriminazione sessuale o contro disabili o comunque facciano capo a motivi razziali o linguistici o religiosi. Tali atti e decisioni discriminatori dovrebbero comportare inoltre, per l’amministrazione pubblica o per l’azienda privata rispettivamente coinvolte, l’immediata comunicazione del fatto alla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità -, secondo quanto previsto dalla legge 10 aprile 1991 n. 125.
Su istanza della parte interessata il giudice civile che venga adito potrebbe disporre, ove lo ritenga opportuno, che il datore di lavoro informi sui provvedimenti giurisdizionali di condanna, mediante lettera, i dipendenti interessati per reparto ed attività nel luogo dove si sia manifestato il caso di violenza psicologica oggetto dell’intervento giudiziario, omettendo il nome della persona che ha subito tali violenze qualora essa ne dia al giudice indicazione esplicita.
Per un’opportuna esigenza di rendere partecipi le parti sociali (con particolare riguardo alla componente sindacale) ad una veritiera rappresentazione del fenomeno del mobbing nel contesto della vita italiana, la legge nuova potrà inoltre demandare alla contrattazione collettiva il compito di disciplinare, per ciascun settore, alcuni aspetti secondari od integrativi della disciplina generale che attengano all’àmbito specifico in cui si svolge il rapporto di lavoro. A tale logica risponde l’art. 4, che si ritiene ispirato al principio d’un corretto svolgimento delle relazioni tra le amministrazioni od aziende ed i sindacati.
Mi sono posto inoltre il problema dell’assistenza ai lavoratori “mobbizzati”, spesso “allo sbando” proprio in forza delle loro sofferenze psicologiche: l’ho risolto prevedendo “sportelli” contro gli abusi e “punti d’osservazione” sul mobbing.
Bisogna peraltro considerare che la sensibile diversità organizzativa e “teleologica”, esistente ancor oggi tra le amministrazioni pubbliche e le aziende private, implica una fenomenologia diversa anche in tema di mobbing. Perciò il progetto prevede due diversi “sportelli”:
a) uno sportello unico contro gli abusi nell’ambiente lavorativo delle amministrazioni pubbliche, istituito a Roma nella sede centrale della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per la Funzione pubblica -. Tale sportello sarebbe destinato ad offrire consulenza ai lavoratori del pubblico impiego, che si ritengano interessati ad atti e comportamenti persecutori;
b) uno sportello unico contro gli abusi nei posti di lavoro privato, istituito in una sede centrale del Ministero del Lavoro e delle politiche sociali in Roma e destinato ad offrire consulenza ai lavoratori del settore privato che si ritengano interessati anch’essi ad atti e comportamenti persecutori.
A ciascuno di questi due “sportelli” dovrebbero essere addetti un avvocato ed uno psicologo; tali sportelli potrebbero rispettivamente avvalersi d’esperti in medicina del lavoro. Ciascuno dei due sportelli dovrebbe essere altresì dotato d’un “numero verde”, destinato ad agevolare la possibilità di corrispondere consulenze telefoniche.
Affinché il lavoro di questi due “sportelli” non rimanga fine a sé stesso, ciascuno dei due organismi dovrebbe elaborare quotidianamente i dati raccolti durante la propria attività, in ordine ai vari aspetti giuridici e statistici. Le medesime modalità elaborative dovrebbero esser seguite, per quanto di competenza, dagli uffici della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento per le pari opportunità -. Entro l’ultimo giorno d’ogni mese il Ministro del Lavoro e delle politiche sociali, il Ministro per la Funzione pubblica ed il Ministro per le pari opportunità dovrebbero riferire per iscritto al Presidente del Consiglio dei Ministri sulle rispettive elaborazioni dei dati mensili sul mobbing.
Nel progetto prevedo, infine, che la nuova legge – qualora sia approvata – entri in vigore il giorno dopo la sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale. Infatti la vivissima attualità sociale della problematica in esame deve implicare, comunque, un impegno politico per l’affermazione di un’istanza che, ponendo l’attenzione sulla necessità di tutelare sempre più accortamente i diritti della persona, costituisce un obiettivo evoluto di civiltà in contrapposizione a sistematiche prevaricazioni, tendenti a distruggere – sotto qualsiasi latitudine o longitudine – la dignità di esseri umani.